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LOCRI EPIZEFIRI



Salvatore La Rosa
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PARTE TERZA - IL PERIODO ROMANO

CAPITOLO III

QUINTO PLEMINIO E IL RIPRISTINO DELLO STATUS DI CIVITAS FOEDERATA

Volendo analizzare quello che fu il comportamento dei governanti locresi nelle vicende appena narrate non si dovrà compiere l'errore di leggere con superficialità gli atti da essi compiuti. A prima vista, infatti, si potrebbe pensare che le loro azioni, nel consegnarsi all'una o all'altra parte, siano state dettate solo ed esclusivamente da puro opportunismo. In realtà, scendendo nel dettaglio delle vicende, quando nel 215 a.C. la città venne consegnata nelle mani dei cartaginesi, i Locresi scelsero l'unica opzione razionale che essi avessero a disposizione; da una parte perchè i cartaginesi non ci avrebbero pensato due volte a rivalersi sui prigionieri da essi catturati in caso del rifiuto ad arrendersi, e dall'altra perchè, anche se avessero voluto resistere, il piccolo presidio romano e la non numerosissima milizia cittadina sarebbero stati spazzati via dall'esercito invasore in breve tempo. Inoltre, l'aver permesso allo stesso presidio romano di abbandonare segretamente ed in sicurezza la città prima che fossero aperte le porte ai cartaginesi, rischiando di subire la collera di questi ultimi, è un'ulteriore testimonianza del fatto che, se non fosse stata messa alle strette, Locri, a differenza di altre città che si ribellarono quasi immediatamente, sarebbe rimasta ancora fedele a Roma. Ciò detto è più semplice capire il tradimento operato nei confronti dei cartaginesi nel 205 a.C., perchè se da un lato è vero che le mutate sorti della guerra suggerivano un riallineamento con i romani, ormai prossimi alla vittoria finale, dall'altro i soprusi e le angherie che la popolazione locrese (memore della tranquillità degli anni passati sotto le insegne di Roma) dovette subire nei dieci anni di controllo cartaginese portò gli abitanti a dar man forte ai romani nel momento in cui sembrava che il presidio cartaginese all'interno della città potesse avere la meglio e respingere l'attacco.

Ciò, tuttavia, non risparmiò Locri e la sua popolazione dalla collera romana.

Immediatamente dopo aver ripreso il controllo della città, infatti, Scipione non ebbe remore a mandare subito a morte coloro i quali avevano consegnato la città ai cartaginesi nel 215 a.C., non tenendo minimamente in considerazione la protezione che era stata data al presidio romano allontanato dalla città, nè tantomeno l'indispensabile (come ben sottolineato dal già citato passo di Livio nel capitolo precedente) aiuto che l'intera popolazione Locrese aveva dato ai soldati romani nel momento in cui le sorti della battaglia per Locri sembravano volgere nuovamente a favore dei Cartaginesi. Ciò fatto, prima di salpare per la Sicilia, Scipione informò la popolazione che le sorti giuridiche della città non dipendevano da lui, ma dal Senato di Roma, e che ad esso i Locresi avrebbero dovuto inviare i propri ambasciatori per conoscere quello che sarebbe stato il destino dell'antica polis.

Intanto la città veniva lasciata al controllo di Quinto Pleminio e dei tribuni militari Marco Sergio e Publio Mazieno, e ben presto Pleminio, approfittando della situazione confusa (dovuta alla guerra ancora in atto) e della fiducia che in egli riponeva Scipione, si lasciò andare ad ogni genere di nefandezza, di violenza e di ruberia nei confronti della popolazione Locrese tanto da indurre Livio a commentare così la situazione che si era creata a Locri (Ab Urbe Condita, XXIX 8, 6-7):

"Ita superbe et crudeliter habiti Locrenses ab Carthaginiensibus post defectionem ab Romanis fuerant ut modicas iniurias non aequo modo animo pati sed prope libenti possent; verum enimvero tantum Pleminius Hamilcarem praesidii praefectum, tantum praesidiarii milites Romani Poenos scelere atque avaritia superaverunt ut non armis sed vitiis videretur certari".

"I Locresi erano stati trattati dai Cartaginesi con tale arroganza e durezza, dopo la (loro) ribellione ai Romani, che (alcune) lievi sanzioni le avrebbero potute sopportare non solo rassegnati ma quasi di buon grado; tuttavia, nella realtà, tanto Pleminio (rispetto ad) Amilcare come comandante del presidio, quanto i soldati Romani del presidio, superarono (talmente) in misfatti e in rapine i Cartaginesi che sembrava che volessero rivaleggiare (tra loro) non in armi ma nei vizi".

Pleminio arrivò addirittura a saccheggiare, come decenni prima aveva fatto Pirro, il celebre santuario di Persefone; e come accadde per Pirro, sottolinea ancora Livio (Ab Urbe Condita, XXIX 8, 9-11 e 9, 1-7), tale atto nefando segnò l'inizio della fine del malgoverno di Pleminio. Infatti il celato malumore che già proliferava tra i soldati romani di guarnigione alla città per il modo sprezzante in cui Pleminio esercitava il comando in nome di Roma, dopo tale atto esplose in sempre più frequenti scontri tra fazioni interne alla guarnigione; una parte della quale era apertamente schierata con i tribuni militari Marco Sergio e Publio Mazieno contro Pleminio ed i suoi uomini, visti come indegni di portare le insegne di Roma. Dopo uno di questi scontri Pleminio, stufo del comportamento dei tribuni militari, li fece bastonare furiosamente, provocando la reazione degli uomini a loro fedeli che si avventarono sullo stesso Pleminio sfregiandolo e ferendolo gravemente.

La situazione stava, quindi, precipitando ed immediatamente, venuto a conoscenza della situazione, Scipione fece ritorno a Locri per riportare la calma e, dopo un rapido processo, sentenziò che Pleminio si trovava nel giusto e che i tribuni militari dovessero essere arrestati e condotti a Roma per essere giudicati dall'autorità senatoria. Ma, una volta ripartito Scipione, Pleminio riprese a governare come aveva sempre fatto e, sostituendosi al Senato Romano, mandò a morte i due tribuni militari e si vendicò con ferocia di quei Locresi che avevano "osato" lamentarsi del suo governo con Scipione.

Ma la misura era ormai colma ed i Locresi decisero di rivolgersi direttamente al Senato di Roma, inviando dieci ambasciatori, per porre fine alla terribile situazione nella quale versavano e chiedere giustizia. E giustizia Locri ottenne.

Dopo essere stati ammessi ad esporre il proprio caso in Senato, il più anziano degli ambasciatori prese la parola raccontando minuziosamente tutte le vicissitudini che aveva attraversato la popolazione Locrese dall'insediamento di Pleminio nella città. Ma non solo. Mostrando una notevole abilità oratoria l'ambasciatore Locrese non cercò nè di evitare, nè di minimizzare il fatto che la città nel 215 a.C. si fosse consegnata ai Cartaginesi volgendo le spalle a Roma, tutt'altro. Cercò, invece, di sottolineare, riuscendovi, come tale situazione fosse da attribuirsi ad un numero esiguo di membri della classe dirigente (per altro già passati per le armi da Scipione all'indomani della riconquista) mentre, al contrario, la popolazione nel suo complesso rimase sempre fedele a Roma; e così facendo l'anziano ambasciatore riuscì a spuntare l'unica arma che il Senato Romano avrebbe potuto utilizzare per giustificare la condotta di Pleminio. Inoltre, toccando un argomento che stava a cuore ai senatori, l'ambasciatore Locrese descrisse con dovizia di particolari l'azione sacrilega compiuta contro il Persephoneion da Pleminio e dai suoi uomini, senza alcun riguardo per la divinità, ricordando come un tale atto fu foriero di sventura per Pirro diversi decenni prima e sottolineando come essi fossero riusciti a superare di gran lunga ed in modo inimmaginabile i Cartaginesi in fatto di crudeltà e nefandezze.

I fatti narrati dall'ambasciatore Locrese nella sua lunga esposizione lasciarono attoniti ed indignati i Senatori romani; a prendere per primo la parola fu Quinto Fabio che, dopo aver deplorato l'accaduto, propose una serie di atti da compiere per espiare la colpa e difendere il buon nome di Roma. Tra questi, l'arresto e la conduzione a Roma di Pleminio per sottoporlo ad un pubblico processo, la restituzione di tutto il maltolto ai Locresi ed il ripristino del tesoro del Persephoneion con il doppio dei valori che vi si trovavano all'interno prima dell'atto sacrilego oltre ad una serie di sacrifici da compiere in favore della divinità (Livio, Ab Urbe Condita, XXIX 19, 6-9):

"[...] Locrensibus coram senatum respondere quas iniurias sibi factas quererentur eas neque senatum neque populum Romanum factas velle; viros bonos sociosque et amicos eos appellari; liberos coniuges quaeque alia erepta essent restitui; pecuniam quanta ex thesauris Proserpinae sublata esset conquiri duplamque pecuniam in thesauros reponi, et sacrum piaculare fieri ita ut prius ad collegium pontificum referretur, quod sacri thesauri moti aperti violati essent, quae piacula, quibus dis, quibus hostiis fieri placeret [...]".

"Ai Locresi si doveva rispondere in piena assemblea poiché quelle offese di cui essi si lamentavano, il senato ed il popolo romano non avrebbero voluto che fossero mai state fatte; (i Locresi) dovevano essere ritenuti brava gente alleata ed amica; a loro dovevano essere restituiti i figli, le mogli e tutto quanto (ad essi) era stato portato via; dopo aver indagato l'entità delle ricchezze sottratte al tesoro di Proserpina, queste si rifondessero in quantità doppia nel tesoro (stesso) e fosse compiuta una cerimonia espiatoria, dopo aver consultato il collegio dei pontefici, dal momento che si trattava della rimozione e della violazione di un sacro tesoro, per sapere quali espiazioni si proponesse di fare, a quali dei e con quali vittime".

Quinto Fabio, inoltre, più per motivi di carattere strettamente politico che per reale necessità, suggerì provvedimenti severi anche contro lo stesso Scipione andando oltre quelle che erano state le richieste dell'ambasciatore Locrese che, parlando di Scipione, gli aveva attribuito, nella vicenda, al massimo una negligenza dovuta, in tempi di guerra, ad impegni considerati più importanti da affrontare rispetto all'amministrazione di una città appena riconquistata.

La decisione finale del Senato accolse in pieno le richieste di Quinto Fabio, eccezion fatta per quanto riguardava la posizione di Scipione. Per il Generale Romano (è bene, a questo punto, ricordare che nel momento in cui il Senato pronunciava le sue decisioni la guerra era ancora in corso), infatti, si preferì seguire le indicazioni del senatore Quinto Metello che aveva proposto l'invio, presso il suo accampamento in Sicilia, di una commissione d'inchiesta senatoriale composta da dieci senatori, due tribuni della plebe (Marco Claudio Marcello e Marco Cincio Alimento) ed un edile e presieduta da un pretore (scelto nella persona di Marco Pomponio) che avrebbe dovuto indagare su eventuali comportamenti scorretti da parte di Scipione nei confronti dei Locresi.

A seguito di ciò Pleminio venne condotto in catene a Roma insieme ad altri uomini riconosciuti come suoi complici; ma il suo processo non ebbe conclusione in quanto morì presso il carcere Mamertino, nel quale era rinchiuso, prima che la sentenza potesse essere pronunciata. La commissione d'inchiesta senatoriale che doveva indagare su Scipione si rivelò, come apparve chiaro sin dall'inizio, nulla più che un mero atto formale che non riscontrò nulla di censurabile nel comportamento del Generale Romano. La popolazione Locrese venne risarcita come stabilito ed il tesoro del Persephoneion venne restituito in misura doppia rispetto all'originale mentre vennero dedicati sacrifici espiatori alla divinità. Inoltre il Senato restituiva a Locri il suo status di città libera, alleata di Roma, con la possibilità di autogovernarsi secondo le proprie leggi (Livio, Ab Urbe Condita, XXIX 21, 7):

"Locrensium deinde contionem habuit atque iis libertatem legesque suas populum Romanum senatumque restituere dixit [...]".

(In questo passo Livio fa riferimento alle parole usate dal Pretore Marco Pomponio) "Dichiarò poi pubblicamente in un'assemblea dei Locresi che il Popolo Romano ed il Senato rendevano loro libertà e leggi".

Siamo ormai nel 204 a.C.; con il ripristino del foedus amicitiae e grazie all'ampia autonomia che Roma le concesse la città Locrese poté mantenere ancora in uso leggi e costumi propri della sua origine greca, ma le vicissitudini del III sec. a.C. causarono un notevole ridimensionamento della città stessa, sia dal punto di vista economico che da quello demografico. Ampie zone della città vennero abbandonate in questo periodo (tra queste l'area di Centocamere) e si incominciarono a sviluppare vari insediamenti agricoli nelle aree limitrofe. L'antico splendore, quindi, si andava via via offuscando ma la città continuerà a rivestire una certa importanza negli anni successivi alle vicende appena narrate anche se i caratteri greci dell'antica polis lasceranno d'ora in poi sempre più spazio, come vedremo, alla romanità arrivando ad essere assorbiti in maniera tale da non poter più essere distinti da essa.

 
     

 

 
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